Giornata della memoria 2011: il ghetto di Terezín


[Disegno di E. Taussigovà]

[Disegno di Pavel Sonneschein]

[Disegno di Margit Koretzovà]
Terezín-Theresienstadt, città-fortezza a sessanta chilometri da Praga, costruita nel 1780 dall’imperatore Giuseppe II e dedicata alla madre Teresa venne trasformata dai nazisti in un gigantesco ghetto che dal 1941 al 1945 funzionò come campo di transito, luogo di soggiorno temporaneo: anticamera, cioè, del viaggio ad est, verso i campi di concentramento-sterminio di Auschwitz e di Treblinka.
Dei 150.000 ebrei che vi furono fatti affluire dal protettorato di Boemia e Moravia, poi da tutta l’Europa occidentale ed orientale – anziani, invalidi di guerra, decorati al valore militare della Prima Guerra mondiale, illustri personalità, ben 15.000 bambini e ragazzi al di sotto dei 15 anni – 33.529 morirono nel ghetto, 88.196 nelle camere a gas, 17.247 furono liberati l’8 maggio 1945. Soltanto un centinaio di bambini sopravvissero.
Simile a tutti gli altri inferni concentrazionari in quanto luogo di fame-malattia-morte-orrore, Terezín ebbe tuttavia una propria “unicità”, terribile e straordinaria al tempo stesso.
Da un lato, fu uno strumento della “campagna pubblicitaria” dei nazisti che, nel processo della soluzione finale della questione ebraica, lo utilizzarono cinicamente come Propagandlager, un palcoscenico da esibire alle delegazioni straniere in visita: “ecco a voi, signori, il campo modello di Terezín, l’esemplare insediamento ebraico dedito alla musica, al teatro, all’arte”.
Dall’altro lato, fu protagonista di un rigoglio creativo che fiorì spontaneo, ben oltre le messinscene pianificate dagli aguzzini: la cultura divenne un “necessario” nutrimento spirituale per i prigionieri, una sorta di baluardo opposto con la forza della disperazione alla minaccia incombente della Vernichtung, la riduzione al nulla.
Il lascito più struggente dell’attività artistica sviluppata negli ateliers clandestini di Terezín è rappresentato dalle produzioni dei piccoli “ospiti”: diari, riviste, 5.000 disegni e 66 poesie.
Gli educatori ebrei coinvolsero i bambini – la cui vita collettiva era organizzata in baracche dette “case d’infanzia” – in molteplici iniziative culturali, volte a lenire l’angoscia derivante dalla percezione consapevole della realtà in cui erano precipitati, a tentare dunque un’operazione di riabilitazione affettiva ed emotiva. Crearono piccole comunità omogenee per lingua e fascia d’età dove, con l’ausilio di medici, infermieri ed assistenti sociali, spronarono i fanciulli ad esprimersi tramite il disegno, la scrittura, la recita.
L’insegnante d’arte Friedl Dicker-Brandeis creò una classe di disegno per bambini nel ghetto: il risultato di questa attività furono oltre quattromila disegni che Dicker-Brandeis nascose in due valigie prima di essere deportata ad Auschwitz. Questa collezione riuscì a scampare alle ispezioni naziste e venne riscoperta al termine del conflitto, dopo oltre dieci anni. Molti di questi disegni possono oggi essere ammirati al Museo ebraico di Praga dove la sezione archivio dell’Olocausto è responsabile dell’amministrazione della collezione di Terezín.
Durante le lezioni di disegno, cui parteciparono in prevalenza le bambine, l’artista Friedl Dicker-Brandejsová fece lavorare le allieve su temi singoli o su interi cicli tematici guidandole, con la propria mano esperta, nella sperimentazione di svariate tecniche (il che è considerevole, se si tiene conto degli esigui mezzi a disposizione). Altre volte propose invece loro di dare sfogo alla propria fantasia cimentandosi su soggetti liberi.
Sono proprio i temi scelti in autonomia ad aprire uno squarcio rivelatore sull’universo infantile di Terezín. Il passato “normale”, ancora vivo nei ricordi ma ormai remoto, affiora costantemente in opere caratterizzate da un turbinio di colori: paesaggi, fiori, animali; la casa, i familiari, i giochi con gli amici. Tuttavia, fra le tonalità vivaci ed allegre s’intromette spesso un elemento di disturbo: una macchia scura, una figura umana deformata, un mostro animalesco evocatore del lupo nero delle favole, tramutate in incubi tutti reali. Benché i bimbi, nella loro innocenza, riescano ancora a sognare di spingersi oltre il filo spinato, sono consci della mutilazione subita: vedono e respirano il clima funereo che grava sul campo – esattamente come gli adulti.
La poesia, che fu un’espressione soprattutto maschile, si contraddistingue per il prevalere di atteggiamenti disincantati, cupi, mesti: la rielaborazione in versi dell’esperienza pare quasi azzerare gli slanci tipici dell’approccio più immediato al disegno. Nelle liriche – semplici filastrocche dal ritmo ripetitivo oppure composizioni più elaborate – i bambini riversano i propri stati d’animo oscillanti fra la desolazione, la paura, poche residue speranze, vane illusioni. Talvolta volgono lo sguardo verso l’ieri, in scritti intrisi di rimpianto per la casa, per gli elementi della natura che sono stati loro sottratti, per un amico od un amore perduti; talaltra inseguono, in un anelito frustrato, un (im)possibile domani di luce e di rinascita. Più spesso, però, focalizzano l’attenzione sul presente, che è sporcizia, tenebra, solitudine, malattia, assenza di libertà-gioia-conforto.

Ecco alcune poesie:
Hanus Hachenburg
Terezin

Sono stato bambino tre anni fa.
Allora sognavo altri mondi.


1941 Anonimo
La canzone dell’uccello

Prova, amico, ad aprire il tuo cuore alla bellezza
quando cammini tra la natura
per intrecciare ghirlande coi tuoi ricordi:
anche se le lacrime ti cadono lungo la strada,
vedrai che è bello vivere.


1944 Anonimo
Una sera di sole

In una sera di sole, sotto l’azzurro del cielo,
sotto le gemme fiorite di un robusto castagno,
me ne sto seduto nella polvere del cantiere.
E’ un giorno come ieri, un giorno come tanti.
[…]

[Disegni e poesie tratti da Terezin. Mostra di disegni e poesie dei bambini del campo di sterminio a cura dell’Associazione Versiliese Italia-Cecoslovacchia realizzazione: Tony Munzlinger stampa: Grafiche Senatori s.p.a. – Firenze – 1982]

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